Ospite di Vincenzo Brandi a “PENSA IN GRANDE – LIVE” abbiamo parlato di emozioni e resilienza. Buona visione.
I SELFIE FANNO MALE?
I SELFIE SONO STATI INSERITI DALL’ASSOCIAZIONE PSICHIATRICA AMERICANA TRA LE NUOVE MALATTIE, È COSÌ?
Alcuni anni fa questa notizia si era diffusa sui media ma senza alcun fondamento scientifico (era solo una fake-news, tanto che l’APA aveva dovuto dedicarvi una pagina dove riportava “no, la selfite non esiste, ma è pieno di disordini mentali reali che necessitano di un trattamento”). In seguito a ciò alcuni studiosi hanno pensato di costruire una vera ricerca della quale oggi possiamo leggere i risultati. La ricerca è stata condotta dall’università di Nottingham in accordo con una scuola Indiana dove si è svolta l’indagine. È stata scelta la popolazione Indiana perché lì vi è la maggior diffusione nell’uso dei social network. Un mese fa ne sono stati pubblicati i risultati.
Come affermato da Papa Francesco durante uno degli eventi del Giubileo: “Le dipendenze sono le nuove prigionie di cui l’uomo è schiavo”. E le nuove dipendenze sono sempre maggiori e oggi sempre più evolute. Oggigiorno non esisti se non sei sul web… si dipende dai like e per un selfie si rischia la vita. Altri disturbi di salute mentale tecnologicamente correlati che sono stati identificati negli ultimi anni includono la “nomofobia”, la paura di non essere vicino a un telefono cellulare e la “cyberchondria”, sentirsi male dopo aver cercato online i sintomi della malattia.
Seppur la ricerca sia doverosa, non amo però la rincorsa affannosa all’etichetta diagnostica che può finire per costruire realmente qualcosa che ancora non esiste. Personalmente non parlerei di “disturbo”.
PUÒ SPIEGARCI MEGLIO DI COSA SI TRATTA SECONDO QUESTO STUDIO?
La nuova patologia è stata chiamata “Selfite”. Di fatto, questa ricerca ha individuato nei soggetti che si ritiene soffrano di questa psicopatologia un vero e proprio bisogno ossessivo compulsivo di scattare foto a se stessi per poi pubblicarle sui social network, principale veicolo dei selfie. Ciò sembra rispondere al bisogno di “essere visti” ricercando sui social network riscontri positivi ai propri autoscatti: più “like” raccoglieranno più benessere potranno sperimentare. O almeno questo è quello che molti credono.
MA SE DAVVERO QUELLO DI FARSI I SELFIE FOSSE UN DISTURBO, ALMENO LA METÀ DELLA POPOLAZIONE NE SAREBBE GRAVEMENTE MALATA. VIP COMPRESI.
Probabilmente sì. Anche se per i VIP forse non si tratterebbe di un disturbo ma solo di lavoro o marketing.
CI SONO FORME PIÙ O MENO GRAVI SECONDO QUESTO STUDIO?
I ricercatori hanno creato una scala che permette di graduare la pervasività del disturbo, individuando tre macro categorie: borderline, acuta e cronica. Nel primo caso rientra chi scatta un minimo di tre selfie al giorno, senza pubblicarli online; chi opta per la pubblicazione di tutti i propri selfie giornalieri rientra nel secondo caso. Raggiunge la massima gravità il paziente cronico, attanagliato da un desiderio irrefrenabile di pubblicare più di sei volte al giorno le proprie foto, senza riuscire a trattenersi.
MA COME FACCIAMO A CADERE IN QUESTA COMPULSIONE?
Attraverso due sottili autoinganni… che un po’ come nella favola di Esopo (La volpe e l’uva) continuiamo a raccontarci per vivere meglio. Questi sono l’autoinganno del “lo fanno tutti” e quello dello “smetto quando voglio”.
All’inizio, di solito, si fanno selfie in modo consapevole e vantaggioso: mi faccio un selfie ogni tanto e provo piacere nel vedere quanti like raccolgo pubblicandolo. Ma più faccio selfie più ho necessità di farne nel tentativo di controllarne gli effetti e di soddisfare il sempre maggiore bisogno che da ciò si alimenta. Rischio così di perderne il controllo, esagerando oltre modo… finendo per non riuscire più a farne a meno.
COME POSSIAMO RICONOSCERE DI STARE ESAGERANDO?
Quando il piacere non è più tale, ma diviene un “chiodo fisso”: non posso non fotografarmi e postare la foto. L’altro elemento che potremo utilizzare è “la crisi di astinenza”, quella sensazione di malessere che prova la persona quando non può soddisfare il bisogno.
PERCHÉ SI DIVIENE MANIACI DEI SELFIE?
Porsi questo quesito nella mia attività clinica risulterebbe potenzialmente fuorviante, perché non esiste un’unica causa, ma un’infinità. L’approccio terapeutico che utilizzo supera questo modello causale e consente di andare ad occuparsi del processo, di come funziona il problema… permettendomi di concentrarmi su come fare per aiutare la persona a superare le sue difficoltà più rapidamente possibile piuttosto che sulla ricerca del perché.
QUALE APPROCCIO PSICOTERAPICO UTILIZZA?
La Terapia Breve Strategica. Sono psicoterapeuta Ufficiale e docente del Centro di Terapia Breve Strategico di Arezzo diretto dal prof. Nardone. Secondo l’approccio strategico le difficoltà prima e le patologie poi si originano dalle tentate soluzioni che la persona mette in atto per risolvere il problema e che invece che risolverlo lo mantengono e lo alimentano. Il mio obiettivo terapeutico è quello di interrompere questo meccanismo di ricorsività tra tentata soluzione e persistenza del problema, attraverso il ricorso a stratagemmi terapeutici e manovre costruite ad hoc, finalizzate alla più rapida estinzione della sintomatologia presentata.
LA RINGRAZIO PER LA DISPONIBILITÀ… VUOLE AGGIUNGERE QUALCOSA?
Recenti ricerche hanno evidenziato che il desiderio di cogliere in uno scatto istanti magici e unici ci impedisce di partecipare a pieno a situazioni piacevoli, così che stress e tensione finiscono per produrre un mancato ricordo. E questo è un problema che tende ad aumentare proprio nel caso dei selfie, dove alla preoccupazione per la scelta dell’inquadratura giusta, si aggiunge quella di apparire fotogenici. Mi capita spesso di ricordare una scena del film “I sogni segreti di Walter Mitty”, dove il fotografo Sean O’Connell (Sean Penn), dopo un lungo e difficoltoso viaggio a piedi tra le nevi eterne in luoghi del tutto selvaggi e solitari, alla ricerca di un rarissimo leopardo di montagna, dopo giorni di appostamento, avvistato l’animale rimane estasiato a guardarlo senza premere l’otturatore e rivela a Walter: “Certe volte non scatto, se mi piace il momento, piace a me, a me soltanto, non amo avere la distrazione dell’obbiettivo, voglio solo restarci dentro“.
SOPRAVVIVERE AI “COMPITI PER CASA”
SOPRAVVIVERE AI “COMPITI PER CASA”
Ormai da anni, psicologi e pedagogisti avvertono che passare le serate a finire, completare e correggere i compiti dei figli è inutile, anzi, controproducente sotto vari punti di vista. Ma quali sono i motivi che spingono comunque i genitori ad aiutare i propri bambini nello svolgimento dei compiti per casa? Spesso sono mossi dal desiderio di dargli una mano perché visti in difficoltà, o per alleviargli il fardello poiché stanchi dopo judo, nuoto e calcio. La motivazione più frequente però è quella di poter contribuire all’orgoglio di saperli primi della classe o poter scacciare i sensi di colpa che si originerebbero qualora arrivassero a scuola senza compiti.
Un recente studio americano afferma che l’intervento dei genitori nelle attività scolastiche sia nella maggior parte dei casi semplicemente inutile se non addirittura dannoso. In questo studio sono state messe in relazione la quantità di “aiuti” genitoriali (per i compiti per casa, la scelta del college, il volontariato nelle attività extra scolastiche e i rapporti con i professori) con i risultati conseguiti dai figli: i risultati della ricerca confermano che i genitori più interventisti non hanno accresciuto il successo accademico dei figli, anzi in diversi casi lo hanno involontariamente ostacolato.
Se i compiti per casa servono a far sì che si possano consolidare gli apprendimenti, stimolare l’autodisciplina e sviluppare il senso di responsabilità, l’intervento dei genitori impedisce ai figli innanzitutto di trarre beneficio dagli esercizi, limita la loro possibilità di mettersi alla prova, di imparare dagli errori, di sviluppare la capacità di impegnarsi e di accettare la fatica.
COSA EVITARE
Monitorare va bene, aiutare un po’ meno se questo significa ‘risolvere’ i quesiti: se ci si accorge che il ragazzo non capisce qualcosa, lo si deve invitare a rivedere la regola o la lezione, non suggerirgli la risposta esatta. Se il genitore percepisse la mole di lavoro pomeridiano richiesta dalla scuola come troppo onerosa per suo figlio, potrà parlarne con l’insegnante, non assolvere i doveri del figlio o esplicitare riserve sui compiti per casa davanti a lui. Anche la correzione a fine compiti non risulta particolarmente utile: sarà la maestra, nel contesto scolastico, a trovare gli errori, correggerli, e provvedere, se necessario, a rispiegare quello che non è stato compreso. Questo consentirà all’insegnante di monitorare il processo di apprendimento di tutti i suoi allievi senza che sia falsato dai dopanti aiuti genitoriali.
COME AIUTARE
L’aiuto utile che i genitori potranno offrire al figlio sarà quello di tipo ‘organizzativo’: decidere un orario da rispettare, offrendogli un ambiente tranquillo, ben illuminato e privo di distrazioni, invitando qualche volta gli amici a studiare insieme perché anche fare i compiti abbia un risvolto più piacevole. Soprattutto evitando critiche e correzioni ma premiando i successi e gratificando l’impegno.
CURIOSITÀ
- Dalla Carta internazionale dei diritti dell’infanzia, art 31: “Gli Stati membri riconoscono al fanciullo il diritto al riposo e al tempo libero, a dedicarsi al gioco e ad attività ricreative proprie della sua età…”
- “Diritto al riposo e allo svago” (sancito dall’Articolo 24 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo) riconosciuto a tutti i lavoratori – e perché non anche agli studenti?;
- Circolare Ministeriale nr.177 del 14 maggio 1969 “Riposo festivo degli alunni” che disponeva che agli alunni delle scuole elementari e secondarie di ogni ordine e grado non venissero assegnati compiti da svolgere o preparare a casa per il giorno successivo a quello festivo.
- 2018 Arrivato il decalogo “Regola compiti”, a cura del Dirigente Scolastico Maurizio Parodi e destinato al Ministro Marco Bussetti e al Sottosegretario Salvatore Giuliano. Il Dirigente afferma: “Premesso che nessuna norma impone di dare i “compiti a casa” (in altri Paesi è addirittura vietato), e le sole occasioni nelle quali il Ministero si è occupato dei compiti è stato per raccomandare di ridurli e non assegnarli nel fine settimana e durante le vacanze (finanche nella scuola secondaria di secondo grado), ed essendo necessaria e urgente la regolamentazione di tale pratica a causa del carico di lavoro domestico, sempre più soverchiante, imposto agli studenti italiani (dati Ocse) fin dai primi anni di scuola, persino nelle classi a tempo pieno, in ottemperanza all’art.31 della Convenzione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza che sancisce, per ogni bambino/a e ragazzo/a, “il diritto al riposo e al tempo libero, a dedicarsi al gioco e ad attività ricreative proprie della sua età…”, ratificata dallo Stato italiano Il 27 maggio 1991, con Legge n.176. Si propone il seguente modello di Regolamento che i dirigenti degli Istituti comprensivi potranno sottoporre agli Organi collegiali e inserire nel Patto di corresponsabilità educativa.“
Ecco il decalogo REGOLACOMPITI:
1. I docenti che decidano di assegnare compiti a casa si impegnano a correggerli tutti e a tutti – altrimenti non avrebbe senso farli.
2. I docenti che decidano di assegnare compiti si impegnano a preparare adeguatamente gli studenti affinché siano in grado di svolgerli per proprio conto (devono verificarlo e garantirlo ai genitori) – sarebbe assurdo e umiliante chiedere loro di fare ciò che non sanno fare.
3. Ai compiti svolti a casa non deve essere assegnato alcun voto – il docente non può sapere come e da chi siano svolti.
4. I compiti non fatti non possono essere “recuperati” sacrificando la ricreazione che per nessun motivo, men che mai “disciplinare”, deve essere ridotta o annullata – gli studenti ne hanno bisogno e diritto.
5. I compiti non svolti durante i periodi di assenza (es. per malattia) non devono essere recuperati – non sarebbe umanamente possibile.
6. La giustificazione del genitore per il mancato svolgimento dei compiti deve essere acquisita evitando reprimende o punizioni – umilianti per lo studente e offensive per i genitori.
7. Nelle classi a 40 ore (tempo pieno), non si assegnano compiti: le attività didattiche devono esaurirsi nelle 8 ore di forzata immobilità e concentrazione – pretendere un ulteriore impegno sarebbe controproducente, penoso, crudele.
8. I docenti che decidano di assegnare compiti pomeridiani verificheranno, preventivamente, che non richiedano a nessuno studente un impegno giornaliero che superi:
– 10 minuti nelle classi prime della scuola primaria
– 20 minuti nelle classi seconda e terza
– 30 minuti nelle classi quarta e quinta
– 40 minuti nelle classi prime della scuola secondaria di primo grado
– 50 minuti nelle classi seconde
– 60 minuti nelle classi terze.
9. Non possono essere assegnati compiti nel fine settimana e durante i periodi di vacanza o sospensione delle lezioni – agli studenti deve essere permesso di ricrearsi (garantito il “diritto al riposo e al gioco”), e alle famiglie di ritrovarsi, senza l’assillo stressante dei compiti.
10. Non possono essere assegnati “compiti per le vacanze” (ossimoro logico e pedagogico) – per le ragioni già espresse nel punto precedente e per evitare che i docenti, come previsto dal primo punto di questo Regolamento, trascorrano il resto dell’anno scolastico a correggere gli esercizi previsti dai “Libri per le vacanze”.
REALTA’ VERE E REALTA’ INVENTATE
La realtà viene considerata qualcosa che ogni soggetto costruisce mediante i suoi processi percettivi, i suoi processi cognitivi, le sue teorie di riferimento e la sua comunicazione con se stesso, con gli altri e con il mondo. Pertanto non esiste una realtà “vera” ma esistono tante realtà “diverse”, a seconda del punto di vista che si assume; a seconda delle nostre elaborazioni cognitive; e, infine, in relazione a tutto ciò che viene comunicato a noi stessi, agli altri e al mondo. Da quest’assunzione ne deriva che qualunque realtà ci troviamo a vivere, sana o insana che sia, sia il frutto di un’attiva interazione tra noi stessi e la realtà stessa. In altre parole, ognuno di noi costruisce una realtà che poi subisce credendola vera. Ognuno è artefice del proprio destino, romanziere del proprio romanzo e autore della propria storia. Da questo ne deriva che anche i disturbi mentali siano il prodotto di un’interazione tra soggetto e realtà, in particolare, in questo caso, di una modalità disfunzionale di percezione e reazione nei confronti di realtà che coinvolgono inevitabilmente la relazione tra il soggetto, se stesso, gli altri e il mondo.
All’interno di questo processo interattivo, se cambia la modalità di percezione della realtà, cambierà anche la reazione nei confronti della medesima.
Ogni realtà cambia a seconda del punto di vista dalla quale la si guarda: ciò conduce a reazioni diverse sulla base delle diverse attribuzioni che si possono fare sulla medesima realtà.
A questo riguardo è illuminante l’esempio che segue .
In una giornata molto calda, in una città del Sud della Italia, un padre e il suo piccolo figlio si mettono in viaggio, con il loro asino, per raggiungere parenti in una città lontana dal loro paese .
Il padre monta sull’asino e il figlio cammina a lato, i tre passano davanti a un gruppo di persone, e il padre sente che questi dicono:
– Guardate un po’ che padre crudele, lui sta sull’asino e il piccolo figlio deve camminare a piedi in una giornata così calda .
Allora il padre scende dall’asino, fa salire il figlio e continuano il loro cammino.
Passano davanti a un altro gruppo di persone e il padre sente che questi dicono :
– Ma guardate un po’, il vecchio padre cammina in una giornata così calda e il figlio giovane se ne sta comodo sull’asino, ma che razza di educazione è questa .
Il padre, allora, pensa che la cosa migliore è che anche lui salga sull’asino e, così, continuano il loro cammino .
Dopo un po’ passano di fronte ad un altro gruppo di persone e il padre sente :
– Guardate che crudeltà, quei due non hanno nemmeno un po’ di misericordia per quel povero animale, il quale in una giornata così calda deve portare cosi tanto peso.
Allora, il padre scende dall’asino, fa scendere anche il figlio e tutti e tre continuano a camminare.
Passano di fronte ed un’altro gruppo di persone che dicono :
– Ma guarda che cretini quei due, in una giornata così calda camminano mentre hanno un asino su cui montare …..
Come il lettore può ben capire, la storia potrebbe andare avanti all’infinito quello che ci mostra è come della stessa realtà si possano avere percezioni ed opinioni molto diverse, e come, sulla base di ognuna di queste, le reazioni delle persone cambino .
“Non esiste una realtà vera, ma tante realtà quante se ne possono inventare” affermava Oscar Wilde.
Pertanto, si deve constatare che non esiste una conoscenza davvero vera delle cose, ma può esistere soltanto una conoscenza idonea, ovvero una conoscenza strumentale che ci permetta di gestire bene le realtà con le quali interagiamo.
L’intervento strategico porterà a modificare la disfunzionale modalità di azione e reazione con la propria realtà cambiandone la prospettiva, ma se cambiamo prospettiva cambierà anche la realtà stessa.
Interrompere le tentate soluzioni: quando il poco equivale a tanto
PANICO
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Luca Mazzucchelli intervista Giorgio Nardone
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Salvini: “non credo al manuale dei disturbi psichiatrici”
SALVINI: NON CREDO AL MANUALE DEI DISTURBI PSICHIATRICI
“DIAGNOSI ANCHE SU BAMBINI SONO ERRATE, TESTO DOMINATO DA CASE FARMACEUTICHE”.
(DIRE – Notiziario minori) Roma, 3 lug. 2012 – “Una diagnosi di psicosi su due e’ sbagliata e forse sono ottimista. Come clinico credo che esistano disagi, ma so che altri non esistono in nessun modo. Non ho mai creduto al Dsm, ne’ alla sua validita’ scientifica”. Ha tagliato corto Alessandro Salvini, professore emerito di psicologia clinica all’Universita’ di Padova, che in un’intervista all’agenzia di stampa Dire ha definito il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Dsm, la cui prossima pubblicazione e’ prevista per maggio 2013, come il “manuale americano, guidato e dominato dalle case farmaceutiche che investono milioni di dollari sui suoi componenti per ricavarne miliardi successivamente. Del resto- ha aggiunto- si pensi che nel ’73, per un compromesso con i russi, fu introdotto il disturbo di opposizione politica”. […]
http://www.direnews.it/newsletter_minori/anno/2012/luglio/03/?news=02
L’autore a scuola
L’autore a scuola: incontro con A. Bartoletti
Bambini irrequieti, incapaci di seguire le lezioni con il resto della classe. Ragazzi svogliati che trascinano i pomeriggi fra mille attività tranne che nello studio: tutti sono accomunati da un denominatore simile: risultati scolastici pessimi. La vera domanda a questo punto è: come si diventa pessimi studenti? E, di conseguenza: perché ci si blocca?
In molti hanno sperimentato almeno in un’occasione il «blocco dello studente». Ma ci sono casi in cui una semplice difficoltà nello studio o in certe situazioni della vita scolastica si trasforma in un problema apparentemente insolubile, nonostante gli sforzi dei ragazzi, dei genitori e degli insegnanti.
E ancora: chi non si è mai sentito terrorizzato il giorno prima di un’interrogazione o di un compito in classe, o non si è mai fatto prendere dal panico di fronte alle domande di un docente? E quante volte ci sarà capitato di leggere e rileggere un capitolo di un libro di testo senza riuscire a capirne o a ricordarne il contenuto?
Con il dott. Alessandro Bartoletti (Sabato 18 gennaio alle ore 20.30 presso l’auditorium del nostro Istituto) affronteremo il problema della performance scolastica indicando le strategie per imparare a imparare. Insomma, presenteremo un «armamentario» di soluzioni terapeutiche efficaci che, applicate ai problemi di studio, contribuiscono alla nascita di un vero e proprio studente strategico.
http://www.ic2arzignano.it/lautore-a-acuola-incontro-con-a-bartoletti/
Psicotrappole
“Esistono tanti disagi psicologici quanti se ne possono inventare. Tuttavia ognuna di queste sofferenze ha una sua via d’uscita. Infatti, così come siamo bravi a costruire le nostre «psicotrappole», altrettanto possiamo esserlo a realizzare le nostre «psicosoluzioni». Oltre venticinque anni di attività terapeutica e circa ventimila casi trattati con successo mi hanno portato alla convinzione che gli esseri umani, nella loro capacità di crearsi difficoltà o vere e proprie patologie, vadano ben oltre la fantasia più fervida ma, al tempo stesso, sono in grado di effettuare cambiamenti tanto imprevisti quanto straordinari. In altri termini, la loro disastrosa attitudine a complicarsi la vita corrisponde alla meravigliosa capacità di trasformare i limiti in risorse e i problemi in soluzioni. […]”
leggete le prime 13 pagine del libro
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