MIA FIGLIA DI 4 ANNI NON VUOLE MANGIARE, COSA FACCIO?

Questo è uno dei problemi più frequenti nei bambini, che innesca spesso nei genitori i più curiosi stratagemmi e tentativi di risoluzione. Spesse volte abbiamo sentito dire: “Se un bambino mangia significa che sta bene”. Da ciò ne discende naturalmente che. Il timore che se non mangia possa questo essere sintomo di un grave disagio è all’origine di un braccio di ferro tra adulti e bambini sull’alimentazione, nel tentativo di farlo tornare a mangiare. I genitori sono particolarmente sensibili a questo aspetto del comportamento infantile e i bambini imparano molto presto che meno mangiano più ottengono. La tentata soluzione genitoriali più comune che ho osservato consiste nel preparargli tutti i cibi considerati più appetibili nel vano tentativo di persuaderli a mangiare. I genitori spesso si ritroveranno a seguirli per casa pregandoli di assaggiare qualcosa, promettendo premi o talvolta comminando punizioni. Si assisterà spesso a vere e proprie competizioni familiari tra nonni, genitori, zii, ecc. per decretare chi riuscirà a farli mangiare ma con scarsi risultati.

Questo comportamento non conduce a soluzione e nemmeno se reiterato potrà essere utile: continuando a fare quello che abbiamo sempre fatto otterremo quello che abbiamo sempre ottenuto. Ne discende che la prima cosa che un genitore strategico dovrà fare sarà smettere di chiedere al figlio di mangiare. Dovrà quindi bloccare la disfunzionale dinamica interattiva genitori-figlio facendo sì che il bambino possa riappropriarsi della naturale funzione dell’alimentazione solo come nutrimento per il funzionamento del corpo.
Uno stratagemma che ho recentemente proposto a due genitori, dopo aver escluso problematiche di ordine medico è consistito nell’invitarli ad evitare di chiedere di mangiare al proprio figlio attraverso una piccola prescrizione. Avevo dato loro il compito di preparare la cena con le pietanze gradite al figlio e con l’indicazione, dopo aver riempito i piatti di tutti, di lasciare vuoto quello del figlio, e quindi di iniziare a mangiare. Nel momento in cui il bambino avesse chiesto del cibo, con molta calma e scusandosi per essersi dimenticati di servirlo, avrebbero dovuto versargliene una piccola porzione e sarebbero dovuti tornare a mangiare. Qualora avesse rifiutato il cibo gli avrebbero dovuto dire che poteva mangiarlo ma solo se gli va. Se si fosse alzato da tavola avrebbero dovuto evitare di seguirlo e togliere il piatto non consumato a fine pasto. Se avesse chiesto cibi diversi da mangiare avrebbero dovuto rispondergli che non ne avevano. Terminato il pasto, qualora non avesse trovato più le cose che aveva lasciato, avrebbero potuto dirgli che pensavano non le volesse più. Al di fuori dei pasti non avrebbero dovuto assecondare eventuali richieste rimandando tutto al pasto successivo.


Questa nuova modalità ha consentito loro di interrompere le vecchie usuali soluzioni instaurando una nuova modalità di interazione genitori-figlio, che li ha portati presto a riacquisire il controllo sulle modalità relazionali legate all’alimentazione. I genitori hanno potuto così intervenire direttamente sul problema superando la difficoltà di bloccare le vecchie modalità poiché impegnati nella nuova strategia. “Cambiare per crescerli” ha consentito ai genitori di aiutare i figli, partendo da ciò che madri e padri possono cambiare nel proprio atteggiamento e comportamento, evitando di rimanere affezionati a ciò che in passato ha funzionato anche quando questo oggi non è più efficace. Spostare l’attenzione da ciò che il figlio fa a ciò che i genitori possono fare di diverso consente di aprire a possibilità nuove. Il figlio, dal canto suo, sorpreso dalle diverse modalità genitoriali ha iniziato subito a chiedere di mangiare dichiarando poi alla madre di provare piacere a finire tutto.

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TROPPO È NEMICO DI MEGLIO

QUANTO AIUTARE I FIGLI?
“Troppo è nemico di meglio”: se aiutare i figli è una sana propensione genitoriale, cercare, invece, di eliminargli tutte le difficoltà nel tentativo di rendergli la vita più facile, fino a intervenire direttamente nelle loro faccende al posto loro, può avere effetti deleteri. Infatti, quanto più si ridurranno i disagi e si annulleranno le sofferenze e le paure, tanto più si cresceranno figli incapaci di fronteggiare dolori e difficoltà a cui la vita inesorabilmente prima o poi metterà di fronte. È questo il paradosso della ricerca del benessere che le famiglie iperprotettive si trovano a vivere. Purtroppo, nella pratica clinica ho potuto appurare come questa modalità genitoriale sia di gran lunga la più diffusa oggigiorno. Il figlio viene superinvestito ed elevato a simbolo del valore positivo o negativo dell’intero nucleo familiare: un suo successo o insuccesso (scolastico o sportivo ad esempio) o una sua anormalità (troppo grasso, denti “storti” ecc.) qualifica o squalifica il genitore che così non potrà non intervenire per difenderlo e soprattutto per difendersi. Così facendo però non risolveranno le problematiche dei figli, finendo spesso per aggravarle.

Da un punto di vista comunicativo-relazionale, la sovrabbondanza di cure, infatti, veicola un implicito messaggio d’amore: “faccio tutto per te perché ti amo”; ma questo contiene al suo interno anche una sottile squalifica: “faccio tutto per te perché forse da solo non ce la faresti”. Proprio questo secondo messaggio sotteso potrà veicolare la sensazione o il sospetto nel figlio di essere un incapace fino a renderlo tale, realizzando così la nefasta profezia. I figli si ritroveranno quindi all’interno di un circolo vizioso dove, sempre meno chiamati a rendere conto delle proprie azioni, saranno portati a chiedere sempre più spesso l’intervento dei propri genitori. Più chiederanno aiuto e più lo otterranno, andando così a confermare l’idea che ciò sia indispensabile. Non accetteranno più le frustrazioni e probabilmente inizieranno a reagire con aggressività se i propri bisogni e desideri non saranno soddisfatti. Quanti adolescenti di oggi sono così?

Gli inglesi hanno coniato un nuovo termine per questi genitori: snowplough parents, letteralmente “genitori spazzaneve”, perché ripuliscono ogni cosa davanti ai loro figli in modo che nulla possa andare loro storto e possa minacciare la loro autostima. Spesso sono madri e padri che rifiutano l’idea che i propri pargoli possano soffrire; sono impreparati ad affrontare gli insuccessi dei figli, non vogliono trovarcisi perché non sanno come uscirne. È come se dicessero: «Non create problemi a mio figlio perché così li create a me». E allora, la tentata soluzione più facile da adottare è dire sempre sì, spianare loro la strada: sono “genitori non genitori” che rinunciano a priori ad educare i propri figli cercando di semplificare loro tutto. Il che si traduce in bambini iperprotetti che diventano incapaci di affrontare un fallimento: se si evita ad un figlio di soffrire, questi non imparerà a gestire la sofferenza; se lo si protegge da ogni timore, non imparerà a superarne alcuno e non sarà in grado di costruire la sua resilienza.

Anche se per molte persone è ancora oggi improponibile pensare che troppo amore possa ammorbare, l’evidenza dei fatti ci dice invece che il troppo amore, quando si trasforma in compassione, diviene dannoso per la crescita dei figli.

Seguendo allora l’antico stratagemma cinese “lanciare il mattone per avere indietro la giada” potremmo iniziare a boicottare volontariamente e quotidianamente una nostra piccola azione protettiva, affinché i nostri figli possano costruirsi le proprie risorse e la personale capacità di resilienza, fino a rendere questo circolo di aiuti non più vizioso ma virtuoso.

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