I SELFIE SONO STATI INSERITI DALL’ASSOCIAZIONE PSICHIATRICA AMERICANA TRA LE NUOVE MALATTIE, È COSÌ?
Alcuni anni fa questa notizia si era diffusa sui media ma senza alcun fondamento scientifico (era solo una fake-news, tanto che l’APA aveva dovuto dedicarvi una pagina dove riportava “no, la selfite non esiste, ma è pieno di disordini mentali reali che necessitano di un trattamento”). In seguito a ciò alcuni studiosi hanno pensato di costruire una vera ricerca della quale oggi possiamo leggere i risultati. La ricerca è stata condotta dall’università di Nottingham in accordo con una scuola Indiana dove si è svolta l’indagine. È stata scelta la popolazione Indiana perché lì vi è la maggior diffusione nell’uso dei social network. Un mese fa ne sono stati pubblicati i risultati.
Come affermato da Papa Francesco durante uno degli eventi del Giubileo: “Le dipendenze sono le nuove prigionie di cui l’uomo è schiavo”. E le nuove dipendenze sono sempre maggiori e oggi sempre più evolute. Oggigiorno non esisti se non sei sul web… si dipende dai like e per un selfie si rischia la vita. Altri disturbi di salute mentale tecnologicamente correlati che sono stati identificati negli ultimi anni includono la “nomofobia”, la paura di non essere vicino a un telefono cellulare e la “cyberchondria”, sentirsi male dopo aver cercato online i sintomi della malattia.
Seppur la ricerca sia doverosa, non amo però la rincorsa affannosa all’etichetta diagnostica che può finire per costruire realmente qualcosa che ancora non esiste. Personalmente non parlerei di “disturbo”.
PUÒ SPIEGARCI MEGLIO DI COSA SI TRATTA SECONDO QUESTO STUDIO?
La nuova patologia è stata chiamata “Selfite”. Di fatto, questa ricerca ha individuato nei soggetti che si ritiene soffrano di questa psicopatologia un vero e proprio bisogno ossessivo compulsivo di scattare foto a se stessi per poi pubblicarle sui social network, principale veicolo dei selfie. Ciò sembra rispondere al bisogno di “essere visti” ricercando sui social network riscontri positivi ai propri autoscatti: più “like” raccoglieranno più benessere potranno sperimentare. O almeno questo è quello che molti credono.
MA SE DAVVERO QUELLO DI FARSI I SELFIE FOSSE UN DISTURBO, ALMENO LA METÀ DELLA POPOLAZIONE NE SAREBBE GRAVEMENTE MALATA. VIP COMPRESI.
Probabilmente sì. Anche se per i VIP forse non si tratterebbe di un disturbo ma solo di lavoro o marketing.
CI SONO FORME PIÙ O MENO GRAVI SECONDO QUESTO STUDIO?
I ricercatori hanno creato una scala che permette di graduare la pervasività del disturbo, individuando tre macro categorie: borderline, acuta e cronica. Nel primo caso rientra chi scatta un minimo di tre selfie al giorno, senza pubblicarli online; chi opta per la pubblicazione di tutti i propri selfie giornalieri rientra nel secondo caso. Raggiunge la massima gravità il paziente cronico, attanagliato da un desiderio irrefrenabile di pubblicare più di sei volte al giorno le proprie foto, senza riuscire a trattenersi.
MA COME FACCIAMO A CADERE IN QUESTA COMPULSIONE?
Attraverso due sottili autoinganni… che un po’ come nella favola di Esopo (La volpe e l’uva) continuiamo a raccontarci per vivere meglio. Questi sono l’autoinganno del “lo fanno tutti” e quello dello “smetto quando voglio”.
All’inizio, di solito, si fanno selfie in modo consapevole e vantaggioso: mi faccio un selfie ogni tanto e provo piacere nel vedere quanti like raccolgo pubblicandolo. Ma più faccio selfie più ho necessità di farne nel tentativo di controllarne gli effetti e di soddisfare il sempre maggiore bisogno che da ciò si alimenta. Rischio così di perderne il controllo, esagerando oltre modo… finendo per non riuscire più a farne a meno.
COME POSSIAMO RICONOSCERE DI STARE ESAGERANDO?
Quando il piacere non è più tale, ma diviene un “chiodo fisso”: non posso non fotografarmi e postare la foto. L’altro elemento che potremo utilizzare è “la crisi di astinenza”, quella sensazione di malessere che prova la persona quando non può soddisfare il bisogno.
PERCHÉ SI DIVIENE MANIACI DEI SELFIE?
Porsi questo quesito nella mia attività clinica risulterebbe potenzialmente fuorviante, perché non esiste un’unica causa, ma un’infinità. L’approccio terapeutico che utilizzo supera questo modello causale e consente di andare ad occuparsi del processo, di come funziona il problema… permettendomi di concentrarmi su come fare per aiutare la persona a superare le sue difficoltà più rapidamente possibile piuttosto che sulla ricerca del perché.
QUALE APPROCCIO PSICOTERAPICO UTILIZZA?
La Terapia Breve Strategica. Sono psicoterapeuta Ufficiale e docente del Centro di Terapia Breve Strategico di Arezzo diretto dal prof. Nardone. Secondo l’approccio strategico le difficoltà prima e le patologie poi si originano dalle tentate soluzioni che la persona mette in atto per risolvere il problema e che invece che risolverlo lo mantengono e lo alimentano. Il mio obiettivo terapeutico è quello di interrompere questo meccanismo di ricorsività tra tentata soluzione e persistenza del problema, attraverso il ricorso a stratagemmi terapeutici e manovre costruite ad hoc, finalizzate alla più rapida estinzione della sintomatologia presentata.
LA RINGRAZIO PER LA DISPONIBILITÀ… VUOLE AGGIUNGERE QUALCOSA?
Recenti ricerche hanno evidenziato che il desiderio di cogliere in uno scatto istanti magici e unici ci impedisce di partecipare a pieno a situazioni piacevoli, così che stress e tensione finiscono per produrre un mancato ricordo. E questo è un problema che tende ad aumentare proprio nel caso dei selfie, dove alla preoccupazione per la scelta dell’inquadratura giusta, si aggiunge quella di apparire fotogenici. Mi capita spesso di ricordare una scena del film “I sogni segreti di Walter Mitty”, dove il fotografo Sean O’Connell (Sean Penn), dopo un lungo e difficoltoso viaggio a piedi tra le nevi eterne in luoghi del tutto selvaggi e solitari, alla ricerca di un rarissimo leopardo di montagna, dopo giorni di appostamento, avvistato l’animale rimane estasiato a guardarlo senza premere l’otturatore e rivela a Walter: “Certe volte non scatto, se mi piace il momento, piace a me, a me soltanto, non amo avere la distrazione dell’obbiettivo, voglio solo restarci dentro“.