Da un punto di vista strategico, portare in consultazione psicologica un bambino rappresenta un evento potenzialmente dannoso: oltre a dar vita ad un pericoloso processo di “etichettamento diagnostico” agli occhi degli insegnanti, dei genitori e di chi si occupa del bambino, l’essere in cura da uno psicologo rischia di far sentire il bambino come “anormale”, “cattivo” o, comunque, “diverso”, e questa sensazione potrebbe avere conseguenze negative sul suo sviluppo psicologico.
Oltre a ciò, quando si ha a che fare con bambini al di sotto dei 12-13 anni (o comunque prima della pre-adolescenza), sappiamo che in genere la leva più vantaggiosa per produrre un cambiamento nel figlio risulta essere la famiglia stessa, piuttosto che la figura esterna del terapeuta.
Per queste ragioni si preferisce utilizzare una terapia “indiretta” condotta con e attraverso i genitori. Grazie a concrete indicazioni di comportamento, il terapeuta guiderà i genitori a modificare determinati atteggiamenti (ovvero le loro “tentate soluzioni”) per giungere alla risoluzione del problema presentato dal figlio, senza che sia necessario vedere il bambino in seduta nemmeno una volta.